La Storia di Paolo

Come si racconta un figlio? Come si mettono insieme le parole per descrivere a chi non lo conosce, chi è il proprio figlio, cosa pensa, in cosa crede, per cosa si entusiasma, cosa non gli piace? E come dire le sue gioie, i dolori, le speranze, le frustrazioni, le sue emozioni, quelle condivise e quelle tenute in serbo, ma indovinate in una ruga, una smorfia, uno sguardo più intenso? Si può trasmettere la miriade di sentimenti, di pensieri, di necessità che ci lega e ci modella, attimo per attimo, lungo tutta la nostra vita insieme?
Mi chiedo tutto questo mentre mi accingo a scrivere di lui, di Paolo, perché in questi anni così fortemente connotati dall’estrema fragilità, dalla mancanza di punti di riferimento, dalla frenesia vuota di aderenza alla realtà, da pressioni arrivistiche cieche alle esigenze di ognuno, dalla violenza fisica e verbale contro la diversità quale che essa sia, spero, lo spero davvero, che raccontare l’esperienza di vita di Paolo, e un po’ anche la mia, possa essere d’aiuto soprattutto ai più giovani, alle ragazze e ai ragazzi del tempo presente. Che possa essere per loro un sollievo per l’anima, prima che un esempio, una luce che scalda il cuore, prima che un modello da seguire.
Paolo per nascere ha scelto un venerdì di primavera del 1969, un giorno speciale non solo per noi che lo avevamo tanto atteso, ma anche perché era il 25 aprile, festa della Liberazione, che da allora per la nostra famiglia ha assunto inevitabilmente un doppio significato.
Dei suoi primissimi anni potrei raccontare aneddoti e sentimenti che renderebbero la sua storia uguale a quella di moltissimi altri bambini, scandita da quell’incredibile infinità di minuzie quasi magiche che fanno sì che quell’esserino del tutto indifeso si vada via via trasformando in un bambino con tutte le sue peculiarità. Unico, come lo è ogni figlio per ogni madre. Ero beata. Lo guardavo crescere e non desideravo niente altro al mondo, immaginando per lui futuri meravigliosi.
Intorno ai tre anni, però, qualcosa inizia a mettermi in allarme, a farmi pensare che Paolo abbia delle difficoltà anche se non so di cosa si possa trattare. Noto che non riesce a salire bene le scale, fatica a muoversi tra i gradini. La suora dell’asilo me lo conferma: se n’è accorta anche lei. Lo portiamo dal pediatra che minimizza. Si tratta di una fase della crescita, il bimbo è in salute e robusto, vedrà che questo problema si risolverà da sé. Uscendo dallo studio sorrido, ma solo con le labbra, perché per quanto fortemente voglia credere al dottore, qualcosa dentro mi punge il cuore e mi dice che non è così.
Passa qualche tempo e Paolo non recupera, anzi il problema si accentua. Ormai mi è chiaro che qualcosa non va davvero, ma cosa? Inizia un pellegrinaggio di visite con pediatri e specialisti. Ognuno fa ipotesi diverse e alla fine arriva la diagnosi. La sua è una malattia con un nome ben preciso, si chiama distrofia di Duchenne. Oggi sappiamo tutto di questa patologia rara che colpisce i bambini, ma negli anni Settanta era stata ancora poco studiata, non approfonditamente almeno. Quindi nessuno sapeva dirci nient’altro se non che Paolo avrebbe perso progressivamente l’uso delle gambe, che avrebbe avuto problemi a respirare. Che non c’era cura e che sarebbe morto giovane, molto giovane. Più o meno vent’anni, questa la sentenza. E pare inappellabile. Ma io non ci sto, non posso accettarla e contro i medici oppongo che lo porterò ovunque, anche all’estero, che ci sarà un modo per guarire. Ribattono che anche il figlio di Enzo Ferrari, Dino, è morto a 24 anni per le conseguenze della stessa distrofia. Se niente ha potuto un uomo con le sue possibilità, cosa mai potrei fare io di più?
Ecco. Cosa?
Mentre mi affanno a cercare altri medici, altri ospedali, altre notizie che possano cambiare l’esito di quella che allora sentivo come una condanna, un’altra domanda comincia ad affollarmi la mente. Perché? Perché questa malattia? Perché è successo a Paolo? Perché proprio a noi? Perché a me che ho sempre cercato di vivere secondo quello che la religione mi ha insegnato? Perché Dio ha voluto questo?
Ora so che tutti coloro che si trovano ad affrontare dolori e tragedie si fanno queste domande, che cadono vittime dei perché, ma allora riuscivo soltanto a pensare in termini personali, non potevo vedere che il mio dolore e soffrire la mia incapacità di accettare quello che ci eravamo trovati a dover vivere. I perché scavano fossi dentro l’anima, l’ossessione per una risposta che non c’è mette a nudo le ossa. E inesorabilmente ti conducono verso la ricerca di un colpevole. Il mio l’ho trovato in Dio. Così per la prima volta nella mia vita mi sono allontanata da Lui, dalla religione, dalla Chiesa, dalla preghiera. Mi sono chiusa in me stessa e mi sono ritrovata sola e annientata da un dolore senza speranza. Sono entrata in quella che San Giovanni dalla Croce chiama la “notte oscura dell’anima”, in cui paura, angoscia, tristezza e confusione erano le mie uniche compagne. Il periodo più buio di tutta la mia vita. Il più terribile.
Un giorno però, al culmine dello sconforto, ho sentito forte in me l’esigenza di entrare in una chiesa. Vincendo la titubanza, mi sono seduta su una panca e ho cominciato a piangere. Un pianto a dirotto, disperato. Liberatorio. Dentro di me si è rotto il muro che avevo costruito contro il resto del mondo e ho potuto di nuovo sentire un contatto con Dio. Gli ho aperto il cuore dicendogli: so che non potrò guarire Paolo, ma non posso più vivere contro tutto questo. Posso accettare la sua malattia solo se Tu mi aiuti a trovare la serenità che voglio trasmettere a mio figlio. Perché non voglio che cresca in preda all’angoscia e all’ansia, oltre che dover fronteggiare le difficoltà che ci sono e quelle che verranno. Rendimi in grado di aiutarlo a vivere la vita migliore che possiamo costruire insieme.
Uscita da lì ero una Francesca diversa. Mi ero tolta un macigno dal cuore. Non mi sentivo più sola. Ero in pace, serena. C’era luce intorno a me. Il buio era alle spalle. Ero tornata a vivere.
C’è sempre un momento, nella vita di ognuno, quando si riemerge da un periodo particolarmente difficile, in cui ci si sente di essere tornati a sé stessi, anzi a una versione migliore di sé, riconciliata, di nuovo in equilibrio. C’è una nuova forza a sorreggerci, a farci guardare avanti con rinnovato ottimismo, con fiducia e speranza. La mia è venuta da Dio. Altri possono aver seguito percorsi diversi, ma non per questo meno importanti. Ognuno di noi sa a chi deve il suo profondo grazie.
Da quel momento in poi sono stata al fianco di Paolo con serenità, oltre che con amore. E questo gli ha consentito di imparare a convivere con la sua malattia senza recriminare mai nulla, senza lamentarsi. Non è stato eroismo il suo, ma essere consapevole che la vita val sempre la pena di essere vissuta, quale che siano le condizioni. Anche quando sei un bambino e ti accorgi che i tuoi compagni arrivano sempre prima di te nella corsa e prendi consapevolezza del fatto che sei diverso da loro, ma sei comunque vivo e sei felice di aver potuto correre insieme a loro.
La serenità, quando la si vive sinceramente, è una chiave che apre le porte del cuore e gli altri lo sentono, ne sono contagiati. Paolo ha frequentato le scuole elementari, le medie e le superiori, fino a diplomarsi in ragioneria all’Istituto Marchi di Pescia. Gli piaceva studiare, imparare, conoscere, ma soprattutto gli piaceva stare in mezzo agli altri, ai compagni di classe, agli amici, che non gli sono mai mancati.
Quando verso i 13 anni non è riuscito più a camminare da solo ha dovuto utilizzare una sedia a rotelle. Non è stato facile adattarsi, ma anche grazie ai suoi amici che lo aiutavano, che non lo lasciavano solo, ce l’abbiamo fatta. Uscivano, si divertivano, studiavano insieme. Paolo è sempre stato attorniato da ragazze e ragazzi. Relazionarsi con loro e con il resto del mondo è stata la sua più grande passione.
Dopo il diploma è riuscito a lavorare per un certo periodo. Teneva la contabilità a La Fustella e per arrivare agevolmente alla tastiera del pc utilizzava delle bacchette speciali. Gli piaceva il suo lavoro, avere rapporti con gli altri dipendenti, con i clienti e i fornitori che andavano in azienda. C’era un trasportatore che diceva sempre che parlare con Paolo era una boccata d’ossigeno per la serenità che dimostrava in ogni cosa.
Quando i problemi di salute si sono aggravati però, Paolo ha dovuto lasciare il lavoro. Sono cominciate le difficoltà respiratorie e quindi le necessità di assisterlo sono diventate più pressanti. In Francia abbiamo trovato una macchina che potesse aiutarlo a respirare, con un’imbracatura da indossare sulla testa, che in Italia non esisteva ancora. Siamo stati una sorta di pionieri nella ricerca di ausili per far vivere meglio Paolo. Il macchinario per aspirare il muco che gli si formava nei bronchi l’abbiamo trovato negli Stati Uniti, ma non era omologato in Italia. È stato lo zio di Paolo, che parlava l’inglese, a d andare fisicamente a prenderlo, riuscendo a imbarcarlo alla dogana con la piccola bugia che ad averne bisogno fosse lui. Abbiamo cercato in ogni modo di evitargli la tracheotomia, che spesso comporta infezioni, e ci siamo riusciti.
Per anni, fin da bambino, Paolo ha fatto cicli di fisioterapia. All’inizio anche in Cecoslovacchia, dove c’era un centro specializzato. Quando ha iniziato ad avere difficoltà a respirare, a causa della progressiva debolezza dei muscoli respiratori, d’istinto ha messo in atto un compenso respiratorio naturale sfruttando semplici movimenti “a pistone” della lingua per fare entrare aria nei polmoni. Questa modalità è chiamata “respirazione glossofaringea” ed è quella che gli garantiva prolungati tempi di autonomia di respiro. Ricorreva a questa tecnica quando andava a teatro o al cinema e voleva evitare di disturbare le altre persone con il rumore del suo ventilatore meccanico.
Grazie a tutto questo i vent’anni sono arrivati e Paolo era ancora vivo. E felice di esserlo. Poi sono arrivati i trenta e anche i quaranta. La sua aspettativa di vita si è più che duplicata. Grazie alle cure quotidiane, grazie alle macchine, certo, ma anche grazie al suo stile di vita, ne sono certa. Paolo ha viaggiato in Italia, in Europa e oltre. Siamo andati al cinema, a teatro, a mostre, a visitare musei, ovunque avesse voglia di andare, qualsiasi cosa desiderasse fare. Non ci siamo mai posti problemi che non fossero quelli strettamente legati alla sua salute. Non ho mai avuto paura perché era lui la mia forza. Era lui a rassicurarmi a riportarmi con i piedi a terra se mi ponevo qualche problema di troppo. E questo lo gratificava, lo faceva sentire utile.
Paolo ha sempre avuto il coraggio di mostrarsi in pubblico esattamente com’era. E gli altri, dopo qualche occhiata iniziale, ci sorridevano e ci salutavano. Nei loro occhi ho sempre letto ammirazione, mai compassione. Ammirazione per la volontà di Paolo di non nascondersi, di non negarsi nulla che potesse fargli piacere fare.
Siamo sempre stati contornati da molti amici, suoi e nostri, che ci sono stati vicini e hanno reso più lieti i nostri giorni. Paolo non ha mai chiesto che venissero a trovarlo, li lasciava liberi di esserci quando volevano. E volevano, infatti. La nostra casa è sempre stata aperta perché l’amicizia è un valore fondamentale nella vita.
Un rapporto speciale l’abbiamo vissuto con Tania, una ragazza ucraina che ha assistito Paolo per tredici anni, volendogli davvero molto bene. Non lo lasciava mai, voleva essergli utile in tutto. Lo ammirava profondamente. Diceva che le dava tantissima energia stare con lui, parlare con lui, fare tante cose insieme.
Paolo non è stato solo un figlio, ma anche una benedizione per me. Stargli accanto mi ha consentito di vivere così pienamente che non posso che essergli grata per tutto quello che abbiamo affrontato e condiviso. Non c’è attimo in cui non lo senta accanto, anche se un infarto l’ha portato via nel sonno nel 2017. Anche di questo devo ringraziare, che non se ne sia reso conto. Perché attaccato alla vita come è sempre stato, gli sarebbe dispiaciuto troppo sentirsene privare.
Vorrei concludere questo lungo racconto con alcune parole dalla viva voce di Paolo, registrate durante una trasmissione televisiva a cui abbiamo partecipato un po’ di anni fa. Perché Paolo continua a parlarci ogni giorno e non solo a me, che seguito a vivere e dialogare con lui anche in sua assenza, ma a tutti coloro, soprattutto ai giovani, che hanno bisogno di sentirsi meno soli, di ritrovare fiducia, di intraprendere un cammino verso la serenità.
Francesca Innocenti
“Non ho mai sofferto di invidia verso i miei compagni di scuola, verso i miei amici, anzi. Per la vittoria di ognuno di loro, per ogni loro successo ho provato una grande gioia per poterli vivere insieme. Quindi mi sono sentito vivo al cento per cento, inserito nel mio ambiente. Ho cercato di godermi tutto quello che mi ha dato la vita”.
“È inutile spaventarsi, chiudersi, aver paura di uscire fuori, di stare con gli altri. Nostro Signore ci dà un terminata vita e questa vita, bisogna viverla al massimo delle nostre capacità. Il Signore ci dà le difficoltà, ma allo stesso tempo ci dà la forza per affrontarle. È importante far sì che la nostra vita sia vissuta al massimo per noi stessi, ma anche per le altre persone che ci stanno intorno”.
Paolo Signori